Un minuto di vergogna

di | 29 Novembre 2011

Il grido di aiuto di giudicato, lanciato nel suo commento all’ultimo post, suona come un atto di irrefutabile condanna del Sistema Radiologia nel suo complesso. Ed è condivisibile, come negarlo, a partire dalle scuole di specialità: nelle quali non si è mai riusciti, nel corso dei decenni, a impostare programmi di formazione omogenei a livello nazionale e che non dipendessero dalle paturnie spesso prive di spessore culturale del direttore di turno; e nelle quali la crescita qualitativa dell’insegnamento non è mai andata di pari passo con la crescita della tecnologia radiologica, forse perchè non c’è stata molta cura nella scelta di chi in università deve operare (lo dico chiaramente, così non ci sono fraintendimenti: l’università non dovrebbe essere una tana in cui ci si imbosca o una piattaforma per catapultarsi a far marchette nel privato, ma una turris eburnea dove professionisti preparati e appassionati insegnano il mestiere ai ragazzi più giovani. Punto e basta, chi ha orecchie per intendere intenda).

Ma il fallimento riguarda anche il dopo, su questo non c’è dubbio. Il radiologo che galleggia in acque basse fino alla pensione, partecipando all’opera del refertificio senza mai porsi una sola domanda sulla reale qualità del suo lavoro, è la regola e non l’eccezione: in questo il nostro specializzando ha ragione da vendere. Ma qui si sconfina in altri campi, in situazioni che, come dico sempre, hanno a che fare non con l’idea platonica di radiologia che tutti noi abbiamo in mente, ma con la pasta di cui siamo fatti. Personalmente, vivendo la mia attuale esperienza lavorativa in un ambiente estremamente motivante e motivato, ho scoperto che nemmeno la motivazione possiede sufficiente attrazione gravitazionale, e che il gruppo si sgrana per mille motivi. Tutti legati alla nostra attenzione alla Qualità, al piacere di svolgere il proprio mestiere, alla voglia di studiare e mettersi in discussione, alla capacità di lavorare con gente meno brava o più brava di te. Alla pasta di cui siamo fatti, in definitiva: un materiale complesso, poco elastico, sul quale è dura fare progetti e che poco si presta alla manipolazione costruttiva. Se un radiologo è pigro, o svogliato, o si sente vittima del sistema, o non ha forza e coraggio per mettersi in discussione con i colleghi più giovani, c’è ben poco da fare. Esiste una zona oscura in cui ciò che produciamo, come persone e come professionisti, dipende da ciò che siamo e che siamo diventati, e non ne ha colpa l’ambiente esterno. Se uno lo capisce da solo è un bene, e ci sono i margini per una crescita ulteriore, se no pazienza: è il sistema stesso a espellere queste persone nel momento in cui il collega giovane smette di chiedergli consiglio o il collega di altro reparto butta via il loro referto e mostra l’esame a un altro radiologo di cui invece si fida. Il bello del mestiere di Radiologo è proprio questo: che non puoi bluffare e non c’è alcun modo di confondere le menti altrui con discorsi fumosi. E’ parecchio rischioso fare gli Sgarbi della radiologia perchè per te parlano non le parole che dici nè il tono che usi per dirle, ma quelle che scrivi nel referto.

Quindi alla richiesta di aiuto di giudicato, che (credetemi) davvero mi ferisce profondamente, io non so esattamente cosa rispondere: se non che la scelta della specialità, del lavoro e in definitiva del proprio destino, non può che dipendere dalle nostre inclinazioni personali. Il mondo di fuori, come tutti prima o poi scopriamo a nostre spese, trama per fare a pezzi il nostro entusiasmo e allinearci al minimo sindacale: dunque le motivazioni, se esistono, devono essere trovate dentro di noi. Se il sistema funziona bene, ossia se la scuola di specialità ci insegna il mestiere, i colleghi sono gentili e disponibili e l’ambiente lavorativo ci fa crescere per osmosi, tanto meglio. In caso contrario pazienza: io in specialità mi imbucavo come un ladro nei bagni, il pomeriggio avanzato, quando il lavoro finiva e volevo studiare. Perché lo facevo? Ma perchè il mio professore, inspiegabilmente, non voleva che studiassimo in reparto, anche quando si oziava in massa. E allora bisognava eludere il controllo e imbucarsi: qualcuno a casa propria, o in centro a bere lo spritz con gli amici, qualcun altro nei cessi a studiare. Però vi assicuro che quegli anni di studio (ho studiato tanto in reparto, e sempre di nascosto; la notte al tempo era fatta per uscire e divertirsi, non per studiare o scrivere i post di un blog) sono stati molto fruttuosi. Poter dire di aver letto pagina per pagina i 3 volumi dell’Emmett sull’urografia a qualcuno parrà vanagloria; eppure più di una volta questa vanagloria mi ha salvato le chiappe laddove, nel momento di difficoltà, è riemersa dall’hard disk cerebrale in cui era nascosta proprio l’informazione che mi serviva.

Insomma, io credo che mai come in campo medico-radiologico l’uomo sia misura di tutte le cose. Il destino o il caso hanno riservato ai radiologi un ruolo di assoluta centralità nella medicina moderna. Invece ciò che accade, e ancora una volta giudicato ha ragione a denunciarlo, è che restiamo in gran parte quelli che eravamo anni addietro: quando la tecnologia radiologica era primitiva e i radiologi venivano considerati meno che spazzatura. Ossia: per lo più restiamo stolidi descrittori di immagini tecnicamente prossime alla perfezione, marginali gestori del paziente (o dovrei dire meri esecutori materiali, forse), e riusciamo persino a essere tronfi del nostro inesistente status di fotografi per conto terzi. Insomma, se posso dirlo con poche parole, direi che il commento di giudicato colpisce nel segno, colpisce duro e dovrebbe indurci non dico a rivedere tutta la nostra impostazione professionale, ma quantomeno a farci vergognare come dei ladri. Perchè se è questo il viatico che lasciamo a chi ci seguirà e che adesso sta imparando a camminare sui nostri passi, beh, c’è poco da esserne fieri. E molto, ripeto, molto da vergognarsene.

E allora cosa altro posso dire, al nostro specializzando? Forse che il suo destino è nelle sue mani, e il modo in cui interpreterà il ruolo di radiologo dipenderà solo da lui. Per quanto una scuola possa traviare le giovani menti, esiste sempre una capacità innata di discernere il giusto dall’errato: si chiama coscienza e affonda le sue radici nell’intelligenza di ognuno. Un radiologo è clinico se la sua mente è clinica. Se invece ragiona come un impiegato del catasto, beh, allora lavorerà come un impiegato del catasto. E  invece noi siamo medici, perdio, e potenzialmente anche dei più capaci: perchè noi abbiamo sempre la controprova del nostro lavoro e della bontà dei nostri ragionamenti. Perchè noi abbiamo il privilegio di ragionare non solo sulla clinica, come gli altri, ma anche sulle immagini. La nostra forma mentis è per forza di cose più aperta e flessibile, anche se la usiamo male.

Insomma, io non ho la ricetta per cambiare lo stato delle cose: non saprei dire in che modo la formazione universitaria possa riacquistare la qualità che ha inesorabilmente perso negli ultimi decenni nè in che modo la politica societaria dei radiologi possa ridare valore alla pluralità delle voci, invece che blindare ogni possibile disputa interna. Non capisco perchè il sistema resiste strenuamente allo svecchiamento, e da parte mia non sono mai riuscito a risvegliare i cadaveri prendendoli a calci sulle costole; anche se ci ho provato spesso.

Ma una cosa la so, e bene: la passione e l’amore per il proprio mestiere pagano. La volontà di costruzione, in reparto e nei rapporti interdisciplinari, paga. Mettersi in discussione paga. Rispettare i pazienti, e ascoltarli con attenzione, paga. Leggere un articolo scientifico, invece che guardare Carlo Conti in tivù, paga. Fare a pezzi le proprie certezze e ribaltare i punti di vista dai quali ogni giorno refertiamo i nostri esami radiologici paga. Condividere i propri casi con i colleghi paga. Tutto ciò costa fatica, è vero, ma la fatica ripaga con gli interessi.

E adesso scusatemi, ma devo andare in camera a osservare un minuto di vergognoso silenzio.

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