Ieri notte ero il radiologo reperibile, e sono stato chiamato dall’anestesista di turno per un signore investito da un camionista ubriaco: dopo sette ore di sala operatoria, in cui per cercare di rimettere a posto i pezzi si erano alternati chirurghi generali, chirurghi vascolari e ortopedici, avevano bisogno di un radiologo che con un’ecografia escludesse il rischio dell’emorragia interna.
Io mi sono vestito, ho preso l’auto e sono andato di corsa: notte fredda, qualche grado sotto zero, ma a me piace tanto la notte quando il tempo è così. Sono arrivato e l’ospedale era deserto, i corridoi vuoti e silenziosi come in un film dell’orrore; sono corso in sala operatoria della chirurgia e un infermiere gentile mi ha dato una divisa verde, delle ciabatte, la cuffia e la mascherina. Prima di entrare ho incrociato i due chirurghi vascolari: erano affranti dalla stanchezza e dalla delusione. Uno dei due mi ha detto, sconsolato: “Mi sa che abbiamo lavorato per niente, ha 50 di pressione massima e temo che non ci sia più niente da fare”.
Dentro sembrava davvero un film dell’orrore: sangue dappertutto, gli infermieri di sala che ripulivano il corpo di un omone con la barba (avrà avuto cinquant’anni, poco più) disteso sul letto operatorio con le braccia aperte a croce. Aveva ferite rattoppate ovunque, persino sui genitali: e io ho pensato che sarà anche colpa del momento storico che sto vivendo, ma davvero mi girerebbero i maroni se un camionista ubriaco dovesse decidere di investirmi e mi riducesse in quel modo
Ho guardato le radiografie, fratture a piovere, e poi mi hanno lasciato fare il mio mestiere, cioè pilotare l’ecografo. C’era sangue in pancia, ma poco. Non che le cose cambiassero in meglio, beninteso, però sempre meglio di niente. Alla fine ho salutato tutti, dato una pacca sulla spalla all’anestesista (che è sempre l’ultimo a lasciare il campo di battaglia, onore al merito) e ho preso la via del mio studio. Fuori dalla porta della sala operatoria c’era il solito gruppo di parenti devastati dal dolore, che è sempre la situazione peggiore da affrontare, e io ho sperato che nessuno mi chiedesse nulla sulla sorte del congiunto perchè davvero non avrei saputo cosa rispondere. Questa volta mi hanno lasciato passare senza dire nulla, mi è andata fin troppo bene.
Poi, nel lungo corridoio che conduce al mio reparto, mi ha fermato un signore per chiedermi dove fossero i distributori di bibite a pagamento: mi ha raccontato che il figlio si era storto una caviglia giocando a calcetto e che adesso aveva tanta ma tanta sete. Abbiamo fatto insieme il pezzo di strada, poi gli ho augurato la buonanotte. Lui non mi ha risposto “buonanotte” o “arrivederci” o “grazie per l’informazione”; mi ha guardato negli occhi e ha detto solo: “Buon lavoro”. E lì non so cosa mi sia successo, ma mi sono sentito travolgere da una commozione senza fine perchè quell’uomo sconosciuto in quel momento mi è sembrato vicino come nemmeno le persone con cui lavoro ogni giorno a volte riescono a essere. E ho infilato in fretta la porta del reparto perchè non volevo che mi vedesse con gli occhi lucidi, cazzo, proprio io che non piango mai, nemmeno se mi prendono a randellate sui denti.
A casa mia moglie mi aveva aspettato in piedi: sul tavolo della cucina c’era una tisana al tiglio bella bollente e lei me l’ha fatta bere mentre parlavamo di cosa era successo in ospedale, e a momenti mi veniva da piangere un’altra volta. Che vergogna.
Ma chissà , forse è solo colpa del momento storico.
Io mi sono vestito, ho preso l’auto e sono andato di corsa: notte fredda, qualche grado sotto zero, ma a me piace tanto la notte quando il tempo è così. Sono arrivato e l’ospedale era deserto, i corridoi vuoti e silenziosi come in un film dell’orrore; sono corso in sala operatoria della chirurgia e un infermiere gentile mi ha dato una divisa verde, delle ciabatte, la cuffia e la mascherina. Prima di entrare ho incrociato i due chirurghi vascolari: erano affranti dalla stanchezza e dalla delusione. Uno dei due mi ha detto, sconsolato: “Mi sa che abbiamo lavorato per niente, ha 50 di pressione massima e temo che non ci sia più niente da fare”.
Dentro sembrava davvero un film dell’orrore: sangue dappertutto, gli infermieri di sala che ripulivano il corpo di un omone con la barba (avrà avuto cinquant’anni, poco più) disteso sul letto operatorio con le braccia aperte a croce. Aveva ferite rattoppate ovunque, persino sui genitali: e io ho pensato che sarà anche colpa del momento storico che sto vivendo, ma davvero mi girerebbero i maroni se un camionista ubriaco dovesse decidere di investirmi e mi riducesse in quel modo
Ho guardato le radiografie, fratture a piovere, e poi mi hanno lasciato fare il mio mestiere, cioè pilotare l’ecografo. C’era sangue in pancia, ma poco. Non che le cose cambiassero in meglio, beninteso, però sempre meglio di niente. Alla fine ho salutato tutti, dato una pacca sulla spalla all’anestesista (che è sempre l’ultimo a lasciare il campo di battaglia, onore al merito) e ho preso la via del mio studio. Fuori dalla porta della sala operatoria c’era il solito gruppo di parenti devastati dal dolore, che è sempre la situazione peggiore da affrontare, e io ho sperato che nessuno mi chiedesse nulla sulla sorte del congiunto perchè davvero non avrei saputo cosa rispondere. Questa volta mi hanno lasciato passare senza dire nulla, mi è andata fin troppo bene.
Poi, nel lungo corridoio che conduce al mio reparto, mi ha fermato un signore per chiedermi dove fossero i distributori di bibite a pagamento: mi ha raccontato che il figlio si era storto una caviglia giocando a calcetto e che adesso aveva tanta ma tanta sete. Abbiamo fatto insieme il pezzo di strada, poi gli ho augurato la buonanotte. Lui non mi ha risposto “buonanotte” o “arrivederci” o “grazie per l’informazione”; mi ha guardato negli occhi e ha detto solo: “Buon lavoro”. E lì non so cosa mi sia successo, ma mi sono sentito travolgere da una commozione senza fine perchè quell’uomo sconosciuto in quel momento mi è sembrato vicino come nemmeno le persone con cui lavoro ogni giorno a volte riescono a essere. E ho infilato in fretta la porta del reparto perchè non volevo che mi vedesse con gli occhi lucidi, cazzo, proprio io che non piango mai, nemmeno se mi prendono a randellate sui denti.
A casa mia moglie mi aveva aspettato in piedi: sul tavolo della cucina c’era una tisana al tiglio bella bollente e lei me l’ha fatta bere mentre parlavamo di cosa era successo in ospedale, e a momenti mi veniva da piangere un’altra volta. Che vergogna.
Ma chissà , forse è solo colpa del momento storico.
PS Stamattina ero di nuovo di guardia: il signore di ieri notte è ancora vivo, la sua pressione arteriosa è 100 su 70 e a volte tiene gli occhi aperti per alcuni minuti. Se Dio esiste davvero, prima di chiedergli il perchè di tutto questo macello gli voglio dire: grazie.