Vengo anch’io, no tu no

di | 17 Luglio 2016

https://youtu.be/lSXOSMDjqzI

In ambiente medico gira da tempo una barzelletta: una di quelle un po’ irriverenti, forse, ma nelle quali si nasconde un fondo di amara verità. La barzelletta è la seguente.

Sapete come si fa a nascondere il portafoglio del paziente a un chirurgo? Semplice: basta nasconderlo tra due libri (sottinteso: tanto il chirurgo non si avvicinerà mai a una libreria).

Sapete come si fa a nascondere il portafoglio del paziente a un radiologo? Ancora più semplice: metteteglielo addosso (sottinteso: il radiologo non visiterà il paziente nemmeno morto).

E sapete come nascondere il portafoglio a un cardiologo? Non è possibile: il cardiologo lo troverà sempre, il portafoglio del paziente.

E’ ovvio, si tratta di una generalizzazione e come tutte le generalizzazioni non tien conto delle peculiarità dei singoli professionisti ma si limita ad analizzare, seppur impietosamente, l’orientamento generale dell’intera categoria. Perché, diciamocelo pure, i cardiologi (si) sono sempre visti come una categoria a parte, fuori dalle righe e dotati di una trasversalità, per così dire, parecchio aggressiva.

Ecco perché mi ha stupito assai la lettera congiunta che le loro nove, e dico nove, sigle societarie e sindacali cardiologiche hanno indirizzato lo scorso 5 luglio ai vertici sanitari italiani: per denunciare con tono un po’ querulo uno scippo intollerabile che a quanto pare li vede vittime dell’intero universo medico riunito.

La lettera comincia così: (…) La Cardiologia ha perso la propria identità. Non si può fare a meno di far notare che quasi tutte le prestazioni di “cardiologia” (ad eccezione della visita e dell’elettrocardiogramma) possono essere effettuate dal Radiologo, dal Chirurgo Vascolare, dal Pneumologo, dall’Endocrinologo, dal Fisiatra ed altri (…); e continua con una litania di prestazioni che, a dir loro, sono di esclusiva competenza cardiologica ma che invece vengono svolte quotidianamente da cani e porci, con grande detrimento del povero paziente (cardiologico, ovviamente, perché se togli il cuore a uno quello muore).

Inutile dire che molte di queste prestazioni che il cardiologo si sente scippare sotto il naso sono invece di naturale pertinenza altrui: cito come esempio tutto il rosario delle ecografie vascolari che nel migliore dei mondi possibili, e se professoroni di estrazione radiologica del recente passato non avessero svenduto la metodica per un tozzo di pane a chiunque passasse per strada, dovrebbero essere appannaggio di chi l’imaging lo conduce in tutte le altre forme. Che poi si arriva a esternazioni limite, tipo che l’ecografia è lo stetoscopio del terzo millennio, e lì poi finisce tutto in vacca.

La perplessità aumenta però al livello di guardia di fronte a quest’altra recisa affermazione: (…) lo specialista in Cardiologia è competente ad eseguire anche altre prestazioni che gli sono negate come per esempio: la RMN del cuore (…). E qui, di grazia, sarebbe molto illuminante poter capire dove diavolo deriva questa competenza così autoreferenziale: visto che anche la maggior parte dei radiologi, che in teoria sono formati fin da piccoli sulle basi fisiche e sulle applicazioni cliniche della risonanza magnetica, e hanno anche il conforto di tutte le altre metodiche di imaging nello sviluppare le competenze che la legge affida loro, si muovono con una certa fatica nel grande mare di pesature, codifiche di fase e frequenza, sequenze di varia natura e utilità, artefatti vari e chi più ne ha più ne metta. Senza contare l’essenziale, cioè che nel torace non esiste solo il cuore e che qualcuno deve pur dare un’occhiata al resto: ma di ciò i nostri cardiologi sembrano disinteressati, bontà loro.

Il tutto, in buona sostanza, è per ricordare a chi teme l’estinzione nel prossimo futuro della Radiologia (come disciplina autonoma, intendo) che gli altri a quanto pare non sono messi meglio, che ciascuno vanta competenze stravaganti e che, se si creano spazi vuoti da qualche parte, è facile trovare un solerte specialista di altra branca che li occupi in tutta serenità.

Ma il problema, ovvio, non è questo. Prendendo in prestito la definizione di un noto filosofo contemporaneo, Zygmunt Bauman, teorico della cosiddetta vita liquida, è veramente da minchioni non accorgersi che anche la medicina sta diventando parimenti liquida e che i confini tra le varie specializzazioni, finora ben definiti come steccati elettrificati, si stanno disfacendo molto rapidamente. La verità dei fatti è che la medicina, nel suo complesso, è in fase di viraggio spontaneo nella direzione delle sue origini: averla divisa in compartimenti stagni non ha portato oltre un certo confine di efficacia ed è naturale che ogni singola figura specialistica cerchi di riguadagnare un approccio il più olistico, e quindi più efficace, possibile; e che questo atteggiamento conduca a conflitti di competenze che non possono essere certamente sanati con una lettera sindacale che unisce la bellezza di otto sigle societarie e una sindacale (ma che cavolo se ne fanno, i cardiologi, di otto sigle societarie distinte? I radiologi ne hanno una sola e già fanno fatica a gestirla).

La morale è una sola, ed è triste doverla sottolineare: nel difendere le proprie prerogative, e in ultima analisi mi verrebbe da dire il proprio portafoglio, i medici dimenticano che l’oggetto del loro mestiere è un paziente in carne e ossa a cui poco frega di chi sia ufficialmente deputato all’erogazione dell’esame di cui ha urgentemente bisogno. E dimenticano un’altra verità fondamentale: come mi scrisse il professor Pozzi Mucelli (radiologo) qualche anno fa, a proposito di un mio post mediamente polemico, in medicina le cose finiscono per farle non quelli che ne hanno certificazione formale ma quelli più capaci. Se un cardiologo diventa più bravo del radiologo a studiare le arterie renali con l’eco-color-Doppler bisogna mettersela via e cedere il passo, o ridiventare più bravi di lui. E lo stesso vale, purtroppo, anche per la risonanza magnetica del cuore: anche se lì c’è ancora da discutere per i motivi a cui accennavo in precedenza, cioè che nel corpo umano non esiste solo l’organo bersaglio della propria specializzazione ma anche altre frattaglie parimenti dignitose e possibile bersaglio di malattie varie.

Oppure occorre ragionare in altri termini: cioè riconoscere l’evidenza che la medicina sta diventando liquida, accettare la mescolanza delle sue componenti e sfruttare l’insieme delle competenze per raggiungere un risultato più efficace. E’ anni che lo dico e più vado avanti più mi convinco che si tratti di una evoluzione inevitabile: le specialità tra non molto si ridurranno drasticamente di numero e invece fioriranno le subspecialità, gli orientamenti intradisciplinari. Non vedo insomma un futuro blindato da specialisti in competizione serrata ma squadre di medici orientate verso un distretto, un organo, una patologia, ognuno con il suo bagaglio di competenze specifiche.

Negare questo con barricate sindacali da fine ottocento vuol dire non aver compreso in che direzione va il mondo (d’altro canto i sindacati, mediamente, la direzione l’hanno smarrita da parecchio tempo). E vuole anche dire che nell’ambiente continueranno a circolare barzellette come quella che vi ho raccontato, a denti stretti, a inizio post.


La canzone della clip non ha bisogno di presentazioni: è la celeberrima “Vengo anch’io, no tu no” del mai abbastanza compianto Enzi Jannacci (1967). Non mi viene in mente niente di meglio per descrivere una situazione paradossale in cui noi medici, tutti insieme, dovremmo andare nella stessa direzione; e invece non soltanto ognuno va nella direzione che gli pare, ma se riesce a non farsi seguire dagli altri colleghi per lui è pure meglio. Come ulteriore approfondimento: leggete il romanzo “Il medico della mutua”, di D’Agata, che in tempi più felici recensii qui.

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